flanerie #1

Da New York a San Francisco

I-

Ci fermiamo nelle stazioni Greyhound il tempo di sfilare dal beauty la crema detergente che mi toglie questo fetore di babywipes di cui sa anche il mio alito. Da 14 ore ho cambiato posto perché una unhappy big family mi ha espropriato dall’ultima fila di tre posti di fianco al cesso. Ho detto, “it’s my place” chiudendo un’occhio perché per me è notte, ero sdraiata, e mi sa che siamo ad Albuquerque. Ma c’era la piccola Desireée e i suoi fratelli piscioni con il padre poco più che ventenne che era uguale a Marky Mark in “Paura” che mi ha guardato impietosendomi.
Ho mangiato un’ottimo hamburger in un autogrill tex-mex e sono un po’ appesantita. Mela e biscotti per colazione. L’indiano è risalito con una ciambella in una mano e con un bicchiere di ghiaccio nell’altra e poi ci ha infilato del whisky di una bottiglietta nella valigia che stava sopra la sua testa. Ora beve un bel bicchierone di whisky penso, si gira e mi dice che a me piacciono gli indiani. Eh si.
La prima notte invece avevamo da poco lasciato Washington e c’era questa tipa che russava veramente un totale e forte da stordire e ho bestemmiato di santa ragione perché porco cane sporco era esattamente davanti a me e anche con la musica del walkman nelle orecchie dovevo sentirla.
Ma c’è da dire che sono quasi arrivata a Los Angeles e che puliscono l’autobus ogni dodici ore completamente. Anche a Los Angeles questo coso lo disinfettano tolgono pezzi di frittura dai finestrini, adesso è veramente pulito o forse ce ne hanno dato direttamente uno nuovo.
New York San Francisco in quattro giorni e sedici ore: a questa velocità riesco a malapena a posare gli occhi su certe cose incredibili degli Stati Uniti e sul mio biglietto c’è scritto che ci metterò altre 7 ore da Los Angeles a San Francisco, sono le undici di sera. Sto aspettando con altre 400000 persone nella megahall della autostazione di L.A. A New York gli stagisti alle Nazioni Unite amici di Benedetta, la gente ai barbecue o nei clubs, Aaron, Damaries, pure Leo, insomma tutti, mi dicevano che avrei fatto meglio a raggiungere S.F. in aereo. Aaron una sera mi disse che sulla Greyhound ci viaggiano i Wanted e gli Unwanted, e si accertò che, baby, avessi capito cosa intendeva, uh.
E’ Luke o non so che si fa avanti, mi dice che fa il fotografo e sta a New York ma adesso viene da San Diego. Siamo nella stessa fila dell’autobus da più di un’ora e a tutta l’aria di essere matto come molti altri qui intorno. Poi facciamo il viaggio accanto, parliamo dei Mojave 3 e durante la notte mi lascio abbracciare e leccare i fianchi, mi bacia la pancia. La mattina dopo alle 7 siamo in corrispondenza della 1@mission, S.F. Gli dico che io devo arrivare alla Bush Street se sa dov’è, e lui mi ci accompagna. Ora ricostruisco che abbiamo risalito la Mission, attraversato Canal Street e poi siamo passati in Union Square, ma in quel momento neanche lo sapevo. Era veramente mattina presto avevo dormito molto male e scomoda. L’aria era chiara del mattino con la brezza che mi mette decisamente su di giri: percorrendo il blacktop della 101 in autobus per arrivare in città si vede dall’alto la baia che toglie il fiato e quando l’ho vista la luce era quella blu dell’alba. Lui mi indica un cartellone pubblicitario e io invece scorro gli occhi in quelli dei pochi che ci passano vicino, a loro modo lenti, uno veloce sullo skate mi sorride.
Sul citofono c’è scritto Mario Minale e suono due volte poi Mario scende le scale con tonfi legnosi ma io non lo sento perché sto aspettando fuori dalla porta a vetri. Vive in una stanza luminosa e prima di sfinire sul sottile materasso a terra lo guardo un po’.


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